La Spada nella Roccia
Le storie dell'Europa in cerca di un popolo raccontate attraverso i suoi leader e i suoi Paesi.
Buongiorno,
come state?
Oggi, se non avete niente in contrario, vorrei fare un giro fuori dall’UE. In un paese che è europeo, ma non lo è del tutto.
Sto parlando della Groenlandia.
Un posto bellissimo nel quale, tempo fa, ho avuto la fortuna di andare in viaggio.
Nonostante sia stato, probabilmente, il viaggio più incredibile della mia vita, al ritorno, non ho quasi mai saputo trovare le parole per raccontare a parenti e amici cosa fosse la Groenlandia. Non ho mai saputo trovare le parole per raccontare il silenzio vuoto di quelle giornate, rotto solo dal rumore dei miei passi nella neve ghiacciata. Non ho mai saputo trovare le parole per raccontare i tramonti con il sole che si immerge nel ghiaccio. Non ho mai saputo trovare le parole per raccontare la sorpresa mozzafiato e commovente delle luci dell’aurora boreale. Non ho mai saputo trovare le parole per raccontare tutto quel sole caldo e quell’aria gelida sulla pelle.
Non le ho mai trovate, quelle parole.
Non le trovo nemmeno ora.
E quindi vi racconto un po’ di cose di politica della regione, che è più nelle mie corde.
Allora, prendiamola un po’ da lontano.
La Groenlandia è un’isola. E fin qui tutto bene. Appartiene alla stessa placca geologica dell’America, quindi di fatto è America. Solo che per varie ragioni fa parte della Danimarca. Queste “varie ragioni” possono essere riassunte facilmente così: per secoli, anzi, millenni, la Groenlandia non se l’è filata nessuno: fredda, inospitale, sempre buia, quasi disabitata. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto andarci o farsene qualcosa?
La leggenda dice che dalle parti dell’anno 1000 Erik il Rosso, una specie di eroe-navigatore islandese vi sia arrivato, esiliato per aver ucciso un uomo, e lì abbia dato origine ai primi insediamenti europei (e dunque non indigeni Inuit) sull’isola. Chissà se è vero o no. Boh. Comunque sia, la storia, quella vera, indica i primi tentativi di rivendicazione della Groenlandia da parte del regno di Norvegia-Danimarica sull’isola attorno alla fine del 1700, quando alcuni pastori partirono da Copenhagen e Oslo per andare a battezzare a caso tutti gli inuit che trovavano. Poi, in pratica, più niente. Fino alla Seconda Guerra Mondiale. Nel 1940 i tedeschi invasero la Danimarca ma, ovviamente, non la Groenlandia, che in pratica, venne lasciata sola: i Danesi, invasi dai nazisti, non avevano tempo e testa per occuparsene. I Nazisti non avevano tempo e testa per andarla a invadere. Gli inglesi e gli americani figuriamoci se avevano tempo e testa per difenderla. In pratica, in quegli anni, il mondo si dimenticò della Groenlandia. Se ne dimenticò come facciamo noi con un ombrello sul treno e poi, dopo dieci minuti, ci picchiamo in fronte esclamando “l’ombrello”. Ecco nel 1940, il mondo, si dimenticò in questo modo qui della Groenlandia.
Poi, però, nel 1941, gli USA, si picchiarono in testa ed esclamarono “La Groenlandia!”, così il 9 aprile 1941, quindi sei mesi prima di Pearl Harbour, quando gli Stati Uniti erano, almeno formalmente, ancora fuori dalla Guerra, gli USA firmarono un accordo con le autorità groenlandesi, che nel frattempo si erano proclamata autonome dalla Danimarca invasa. L’accordo di fatto diceva due cose: 1) che la Groenlandia diventava un protettorato americano; 2) che gli americani, sull’isola, potevano portare tutte le armi che volevano.
In quegli anni (fun fact) il governatore dell’isola volle creare un suo esercito. Così tanto per non essere da meno rispetto agli amici americani. Così creò il "North-East Greenland Sledge Patrol": una temibile armata di ben 15 uomini che si spostavano su slitte trainate da cani. Detta così fa ridere. Ma in realtà il ruolo di questi quindici inuit fu fondamentale nella sconfitta dei nazisti. Perché più volte le navi tedesche tentarono di sbarcare sulle coste orientali dell’isola per impiantare lì alcune centraline meteo. La ragione era che osservando venti e correnti da lassù, i tedeschi avrebbero potuto conoscere in anticipo le condizioni meteo in Europa e programmare meglio le loro incursioni aeree e navali. Questa cosa di sbarcare in Groenlandia ai nazisti non riuscì mai, proprio perché questi quindici cristi della "Sledge Patrol" in qualche modo (neppure loro probabilmente sanno come) riuscirono più volte a fermarli e ricacciarli indietro, facendo, nel 1943, persino un prigioniero. (Se il signor Spike Lee ci legge, sappia che è vivamente pregato di fare un film su questa cosa).
Poi, la guerra finì, e con essa anche il protettorato degli americani. Così l’isola tornò ai danesi.
Ed è qui, a questo punto, che inizia la storia che ci interessa.
Danesi e Groenlandesi, anche se parte dello stesso regno, per secoli si sono conosciuti solo per sentito dire. Sapevano l’uno dell’esistenza dell’altro, ma poco più.
Ma nella seconda metà del XX secolo, consoscersi per sentito dire, vivere facendo finta che l’altro non esistesse, perché era troppo lontano e diverso, non era più una cosa possibile. Il mondo, tra la fine degli anni ‘40 e l’inizio degli anni ‘60 è cambiato come forse mai in tutta la sua storia. Volare, spostarsi, comunicare, era diventato estremamente facile e veloce. I legami radicalmente più stretti. Così dopo la Seconda Guerra Mondiale, cambiò tutto: i danesi si resero, forse per la prima volta nella loro storia, conto del fatto che il loro regno non era limitato solo a una minuscola e gelida penisoletta in cima all’Europa, ma era, di fatto, il Regno con la superficie più grande d’Europa. Gli Inuit, dal canto loro, si resero brutalmente conto che la faccenda di far parte del Regno di Danimarca non era più solo una formalità, ma una cosa vera, con tasse, leggi, regole. E soprattutto con una novità. Le fabbriche.
Nel mondo pacificato e neoconsumista del dopoguerra (quello di Mad Man, per intenderci) i danesi si resero conto che il caso aveva dato loro il controllo di una delle zone sì più impervie, ma anche più pescose del mondo. Un luogo ideale per impiantare enormi industrie di trasformazione del pesce. E soprattutto un luogo in cui i lavoratori avrebbero lavorato per quattro spiccioli e un po’ di progresso. Così attraversarono il mare e cominciarono a costruire le loro fabbriche e le case per gli operai inuit che pensavano di farci lavorare. Ma si sbagliavano. Perché gli inuit degli anni ‘60 (un po’ come i materani dei sassi, perdonate il parallelo un po' ardito) una casa con i muri e il pavimento non la avevano mai vista. E neppure i soldi, se è per questo. E tantomeno una fabbrica. A quel tempo gli inuit vivevano ancora come avevano sempre vissuto: nelle buche nelle neve, mangiando quel che cacciavano e pescavano, commerciando piccolissimo artigianato. Quando arrivarono i danesi con i loro lavori ‘normali’ e le loro case, gli inuti ne furono prima affascinanti e lusingati. Poi spaventati. Infine, e siamo ai giorni nostri, derubati, svuotati, avvelenati.
Questo perché due generazioni dopo la loro inurbazione forzata, gli inuit si ritrovano senza più niente: le fabbriche non ci sono più, perché nel frattempo il mondo è cambiato un'altra volta. Ma non ci sono più neppure le tradizioni, la storia, e la lingua che erano stati loro per secoli. Non c'è passato, non c'è futuro.
Gli inuit sono completamente bloccati nel tempo. Non possono andare indietro, perché non c’è più un indietro a cui tornare. Non possono andare avanti, perché un futuro e un lavoro non ce l’hanno. Così sono lì. Fermi. Disoccupati e bloccati su un’isola gelida e disabitata che, per giunta, si sta sciogliendo. E allora che fanno? Fanno quello che si fa quando si è fermi e bloccati: bevono, mangiano, si deprimono, si suicidano. Oggi la Groenlandia è, per paradosso, uno dei paesi più ricchi del mondo (perché la Danimarca la foraggia generosamente), ma anche uno di quelli con la popolazione più povera e disperata del mondo.
In questo quadro complicato (ho quasi finito, giuro: ancora qualche riga di pazienza) si inserisce il fatto che nel sottosuolo groenlandese pare ci sia ogni ben di Dio di materie prime: gas, petrolio, terre rare, zinco, uranio. Un tesoro che per secoli è stato non solo sconosciuto, ma anche inaccessibile, perché c’era il ghiaccio. Ora il ghiaccio sta andando a pallino e le risorse sono prendibili, anche se a costo di devastare in modo irreparabile l’ambiente incontaminato dell’isola.
Per questo, da anni, gli occhi delle potenze del mondo stanno guardando alla Groenlandia: La Russia (che godrà di una posizione geografica di enorme favore quando- non se, quando- l’Artico sarà navigabile), ma soprattutto gli USA e la Cina.
Per quel che riguarda gli Stati Uniti, qualcuno ricorderà la sparata di Trump di qualche tempo fa per comprare l’isola.
Per la Cina, invece, le cose sono più complesse e meno ridicole. Hanno la forma di un colosso minerario australiano, ma di cui la Cina è azionista di maggioranza, la Greenland Minerals and Energy che nel 2007 ha comprato un pezzo di terra nel sud dell’isola. Il problema è che quel pezzo di terra sulla punta meridionale delle Groenlandia, Kvanefjeld, contiene quello che forse è il più grande giacimento di uranio e di terre rare del mondo. E i cinesi, per interposta persona degli australiani, vorrebbero sfruttarlo.
E il governo dell'isola, almeno quello che c'era fino a poche settimane fa, era più che intenzionato a dare il permesso di escavazione e sfruttamento, perchè con il surplus di imposte e di lavoro che la miniera avrebbe generato, gli inuit desideravano finanziare il loro mai sopito sogno di Greenxit, ossia l'uscita dall'odiatissimo Regno di Danimarca.
Ma le cose non sono andate così.
Poche settimane fa, alle elezioni anticipate, convocate proprio perché sui permessi di Kvanefjeld il parlamento non aveva trovato una maggioranza, gli inuit (che in tutto sono 56 mila: quanto gli abitanti di Lodi) hanno votato in massa per il partito Alleanza Inuit che si oppone all’avvio della miniera. Il che significa per i prossimi cinque anni quello che potrebbe diventare il più grande (e più inquinante) progetto di sfruttamento minerario del mondo resterà lettera morta.
Un'ottima notizia no?
Sì, certo, evviva.
Ma siamo seri: fino a quando sarà così?
Dai, seriamente.
Oggi, gli Inuit hanno scelto la tutela della loro terra e del loro ambiente invece degli enormi profitti che il loro sfruttamento potrebbe portare. E ok. Ma fino a quando lo faranno? La mia opinione è che prima o poi, a un certo punto, arriverà un momento nel quale gli abitanti della Groenlandia saranno più poveri e più disperati del solito e di ora, e allora chiameranno i cinesi (o gli americani; difficilmente gli europei) e diranno loro prendetevi quello che vi pare, ma tirateci fuori di qui. Prendetevi quello che vi pare, tanto a noi non sappiamo che farci. Quel giorno, è inevitabile, arriverà. E l’Europa, la Danimarca e il mondo hanno tempo fino a quel giorno, segnato in rosso sull’agenda di Dio, per dare alle popolazioni artiche un’alternativa, una strada, una soluzione che non sia svendere la loro terra al migliore offerente.
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Detto questo, buona settimana a tutti e abbiate cura di voi.
Ci leggiamo settimana prossima.